Desidero condividere con voi l’esperienza di un recente ricovero in ospedale, per un intervento chirurgico. Ho vissuto questo evento con una particolare consapevolezza, sia per l’inevitabile timore che si associa ad ogni esperienza “sotto i ferri”, sia per l’ambientazione a contorno in un periodo di post pandemia, tutt’altro che superata.

Ho usato la forma del pensiero scritto, per cercare di condensare le emozioni così come attraversano la mente di chi, suo malgrado, si trasforma da umano libero a “paziente in ospedale”.

Ore 6, finalmente è arrivato il giorno. Sveglio da sempre, una notte passata a immaginare come andranno le cose. Non si sa nulla dell’anestesia, totale, spinale, so solo che ho firmato una serie di documenti sulle possibili conseguenze (a volte nefaste). Ovviamente sono solo precauzioni, ma l’idea di perdere conoscenza – perché questo accadrà – mi rende fragile. L’essere presente a me stesso è un baluardo su cui ho costruito gran parte delle mie certezze, riverbero di un sistema educativo che metteva al centro il “controllo della realtà”.

Finalmente mi avvio, accompagnato da mia moglie che recita una necessaria tranquillità. Ultima checklist dei documenti, borsone con effetti personali, telefonino e libro al seguito. Manca solo la mascherina. Ecco il primo elemento che mi richiama alla mente la particolare situazione che stiamo vivendo.

Qualche giorno prima ho dovuto fare “il tampone” Covid 19. Nessuno può accedere in sala operatoria se non passa questo esame. Un momento surreale perché avviene in Chiesa. La cappella della struttura di cura è stata adibita a centro per tamponi Covid, per rispondere alle esigenze di isolamento e capienza dettate dalle circostanze.

Arrivo puntuale in ospedale, mi dirigo al controllo temperatura – altro elemento nuovo dell’era Covid 19 – e finalmente vengo accompagnato in reparto. Una stanza con due letti, il mio compagno di avventura è già sdraiato a sonnecchiare. Un vecchio, tranquillo della tranquillità di chi ha vissuto tanto, scoprirò poi che ha 90 anni, figli, nipoti e pronipoti.

Mi devo spogliare completamente e indossare un camice, con un simpatico laccio posteriore che mi sembra impossibile da allacciare. Mi tremano le mani, segno evidente di uno stato d’ansia alimentato dal nuovo abbigliamento.

Arrivano gli operatori sanitari e mi caricano sul mio veicolo. Un lettino attrezzato con rotelle e barra per la flebo. Mi ritrovo a cambiare prospettiva, da homo erectus a paziente supino. Il mio campo visivo è costretto a guardare in alto e mentre mi adatto alla nuova disposizione dell’orizzonte, comincio a muovermi. Sento come attraverso un filtro i dialoghi dei sanitari e il vociare di pazienti che si affacciano alle loro camere per trarre sollievo dal varcarne la soglia. E qui inizia la visione interminabile del soffitto.

Regolare, formato da lastre di metallo rimuovibili, intervallato da sistemi di illuminazione a LED. Luce vivida, fredda, una struttura geometrica che si impossessa della mia attenzione con una modalità quasi ipnotica. Non riesco a muovere il capo, sebbene non sia in alcun modo bloccato. In realtà quella regolarità mi tranquillizza, permette alla mente di agganciare un ritmo, un susseguirsi di certezze che si ripetono fino alla prima curva.

Si aprono le porte dell’ascensore e ho modo di osservare il mento delle donne che si stanno prendendo cura di me. Un punto di vista inconsueto ma gratificante, perché mi rivolgono lo sguardo e mi fanno sentire parte di un ecosistema umano che cura altri umani.

Ultimo corridoio, siamo al piano delle sale operatorie. Nuovo soffitto, colori più tendenti al verde, come gli indumenti dei medici. Adesso il porta flebo è occupato da una sacca, seguo con la coda dell’occhio le goccioline che silenziose si prendono cura della mia idratazione. Si affaccia l’anestesista e avviene un cambio di scena. Si passa dal lettino mobile al lettino operatorio, immoto, protagonista assoluto di un ambiente pensato per avere tutti gli strumenti a portata di mano.

Il soffitto è interrotto da una figura mostruosa con due occhi giganti fissati a due braccia snodate che possono ruotare e avvicinarsi per fare luce senza ombre. Sono lampade enormi, con una luce che non acceca, più calda e accogliente. Ogni tanto vedo le sagome dei medici come ombre cinesi che si affacciano per distrarmi dall’imminenza dell’oblio.

Mi risveglio sul veicolo che mi riporta in stanza, felice di essere ancora vivo, dispiaciuto di non aver potuto condividere la sottile linea d’ombra tra la coscienza e il sonno profondo.

Il soffitto in corsia