Passo Lanciano, Mammarosa, Majelletta. A 1600 metri la neve di febbraio è abbondante, una coltre che rende irriconoscibile il grande spiazzo su cui parcheggiano automobili e camper dei villeggianti estivi.

Siamo partiti dal mare brumoso di Pescara, una giornata non fredda ma introversa, foschia e nuvole hanno accompagnato il nostro viaggio, presagio di colori sbiaditi e atmosfere rarefatte. Mentre ci avviciniamo alla meta, le opere dell’uomo lasciano posto alla vegetazione, sempre più fitta e sempre più protagonista di un paesaggio incantato. La foschia rende i contorni indistinti, la neve inizia a fare capolino sul ciglio della strada, i rumori si attenuano e l’automobile si trasforma in una metafora di passaggio dal mondo umano al mondo eterno.

Al crescere dell’altezza, le nuvole lasciano spazio ai raggi dorati del sole invernale. Prima si insinuano tra i rami del sottobosco, trasformati da spettri inquietanti a braccia forti della natura. La temperatura si abbassa e la neve diventa protagonista, mentre la strada si muove sinuosa sotto le gomme termiche.

Siamo a 3 gradi e ormai la foschia e le nuvole appartengono ad altre altitudini, qui a 1600 metri il sole ruba la scena e illumina un paesaggio innevato di un candore accecante. La neve incontaminata e le montagne sullo sfondo, i rumori ovattati di gente che si lascia avvolgere dal bianco, in lontananza un gatto delle nevi batte la pista da sci.

L’automobile è parcheggiata sul bordo d’asfalto che ci separa dall’immensa distesa di neve. Da questo momento i piedi sono l’unico mezzo di trasporto per chi non è provvisto di ciaspole o strumenti per sciare.

Cammino, inizio a calpestare una superficie instabile, cedevole, a tratti soffice, mentre il cuore e i polmoni sentono che possono accelerare. Ogni fibra del mio essere sa che siamo più vicini al sole, la mente riceve meglio i messaggi dell’universo e la qualità dei pensieri sembra confermare questa sintonia.

Mi spingo verso una casetta accanto agli impianti di risalita, spenti ormai da molto tempo per volontà del Covid 19. Cerco di scacciare questa consapevolezza e mi rendo conto che sono solo a sufficienza, distante a sufficienza. E finalmente mi tolgo la mascherina.

L’aria restituisce una freschezza frizzante, sembra di uscire da un luogo chiuso e opprimente. Il naso inizia a recuperare la sua funzione olfattiva, riesco a sentire il profumo della montagna abruzzese, ho la bocca libera di accogliere ossigeno senza filtri. E mentre percorro la neve in salita mi accorgo di provare una gioia infantile, quando i polmoni mi bruciano e il cuore sembra voler uscire dal petto.

Ho raggiunto la mia casetta e mi appoggio esausto sulla parete di legno invecchiato. Sotto di me le nuvole dipingono un paesaggio surreale, una rappresentazione onirica del paradiso di una nota pubblicità di caffè. Stare con i piedi nella neve e gli occhi tra le nuvole è una sensazione capace di saturare ogni volontà di azione. Mi concedo diversi minuti di pura estasi, interrotta da voci lontane di bambini sullo slittino e dallo scricchiolio del ghiaccio sferzato dal calore solare.

Sono solo. Ma questa è una solitudine buona. Mi riconcilio con un progetto più grande di me, con le forze incredibili della natura, forze che hanno concepito la vita e la gioia di vivere. Oggi sento di avere un posto d’onore sul palcoscenico di questa montagna imbiancata, si va in scena con l’immenso.

Tra poco tornerò dai miei simili, ma questo legame con l’immenso lo verrò a cercare tutte le volte che mi sentirò solo. Fa bene coltivare la solitudine buona.

La solitudine buona